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Covid, dalla pandemia ne usciremo. Ma non migliori: ecco che cosa ne sarà di noi

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Iuri Maria Prado
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Possono esserci due atteggiamenti diversi a proposito delle iniziative di restrizione adottate per il contenimento dell'epidemia. Due atteggiamenti diversi sia tra quelli che le impongono sia tra quelli che ne sono destinatari. Il primo è quello di chi avverte la gravità del provvedimento che restringe le libertà e i diritti, ma si costringe a infliggerlo o a subirlo perché ritiene che sia necessario.

 

L'altro è quello di chi lo infligge o lo subisce perché ritiene che quelle libertà e quei diritti non valgano nulla: e che siano sacrificabili non perché altrimenti non si può fare, ma perché rinunciarvi non costa niente. Il rischio che stiamo correndo è questo, ed è più grave delle limitazioni per sé considerate, è più grave delle rinunce a cui siamo sottoposti. La verità è che ogni ondata di restrizioni non si frange sulla speranza che passi, ma sull'abitudine a subirla. Il ritorno del freddo non è vissuto con i diritti e le libertà che vanno in letargo, ma con i diritti e le libertà che possono morire di freddo perché tanto ci tiene in vita il termosifone della scienza.

 

Il "ne usciremo migliori", la prospettiva di una nuova egemonia di cui (non) vaneggiava il ministro della Salute e della Delazione, altro non sono che questo: la degradazione a cose superflue delle cose che abbiamo perduto. La cupamente allegra derelizione dei diritti e delle libertà sul presupposto che non servono, piuttosto che l'aspettativa di recuperarli nella dolente sopportazione della rinuncia.

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