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Judit Varga, la ministra ungherese: "Mandiamo la sinistra all'opposizione in Ue"

Fausto Carioti
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Classe 1980, unica donna nel governo ungherese, dove ricopre l’incarico di ministro della Giustizia e degli Affari europei, Judit Varga è uno degli esponenti della nuova destra europea da tenere d’occhio. A lei Viktor Orbán, che è anche il leader del suo partito, Fidesz, ha affidato la conduzione della complicata partita tra Budapest e Bruxelles. È appena stata a Roma, dove ha incontrato i suoi omologhi Carlo Nordio e Raffaele Fitto.

Ministro Varga, quindici Stati Ue hanno aderito alla causa contro la vostra legge sulla protezione dei minori che vieta la diffusione di informazioni esplicite sulla omosessualità e il cambio di genere. L’Italia non è tra questi Stati. È stata una vostra richiesta?
«No, non abbiamo fatto alcuna richiesta. Il governo italiano è in grado di capire da solo che in questa controversia legale l’Ungheria ha argomenti solidi. La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea stabilisce che il modo in cui sono educati i figli deve essere deciso dai loro genitori, in base alle leggi degli Stati nazionali. E la legge ungherese a protezione dei minori stabilisce in modo chiaro che è un diritto dei genitori e delle famiglie decidere l’educazione dei figli, in linea con le loro convinzioni filosofiche e pedagogiche. Non può esserci alcun contrasto, quindi, tra ciò che stiamo facendo e la normativa europea».

Resta il fatto che quindici Stati membri della Ue, su questo tema, si sono schierati contro di voi. Il segnale politico è chiaro.
«Personalmente, la cosa non mi stupisce affatto. C’era stata una sollevazione da parte di questi Paesi nel 2021, prima che chiedessero il testo esatto della nostra legge, quindi prima che potessero leggerla o studiarla».

Come se lo spiega?
«Abbiamo toccato un nervo scoperto. La lobby pro-gender è presente in molti Paesi e ad essa si deve questa reazione motivata da ragioni politiche e ideologiche. Mi spiace che tanti media abbiano scritto della nostra legge prima ancora di avere controllato i fatti».

E i fatti come stanno?
«I fatti dicono che senza l’approvazione scritta dei genitori non può essere impartita alcuna educazione sessuale ai ragazzi. Questo è tutto ciò che stabilisce la nostra legge per la protezione dei minori, ed è in linea con la normativa Ue. Aggiungo che la legge ha un forte sostegno popolare. Un anno fa, nello stesso giorno delle elezioni politiche, fu sottoposta a referendum: la maggioranza di governo conseguì un’ampia vittoria elettorale, ma gli ungheresi che si espressero in favore delle legge furono più numerosi di quelli che votarono per noi».

Come vi opporrete?
«Confidiamo che la Corte di giustizia Ue, alla quale abbiamo presentato ricorso, riconosca le nostre ragioni. Lo stato di diritto deve prevalere anche nell’Unione europea. La vertenza è in corso, sarà lunga e non ci aspettiamo un giudizio quest’anno».

Come sono i vostri rapporti col governo di Roma?
«Con i partiti dell’attuale coalizione governativa e con Giorgia Meloni il rapporto era molto buono prima ancora che Meloni diventasse primo ministro, e ovviamente è rimasto tale. C’è convergenza su molti temi strategici, come le politiche dell’immigrazione e la protezione delle famiglie. Ci sono anche questioni di dettaglio sulle quali, di volta in volta, possiamo non concordare, ma questo è normale. È cruciale che Meloni rimanga forte come è adesso, in modo che si possa agire di concerto in sede di Consiglio europeo in difesa dei valori conservatori. Nei colloqui che ho avuto con i ministri Carlo Nordio e Raffaele Fitto abbiamo concordato su molte cose, soprattutto in vista della presidenza ungherese della Ue, che inizierà il primo luglio del 2024».

 

 

 

Quale sarà la vostra priorità in quel semestre?
«La sfida demografica europea sarà in cima all’agenda della nostra presidenza. La società europea sta invecchiando, e quindi noi dobbiamo sostenere e rafforzare le famiglie.
L’immigrazione illegale non può essere una risposta. È necessario che su questi temi Ungheria e Italia uniscano le forze».

Il vostro governo ha continuato ad avere buoni rapporti politici e commerciali con Mosca anche dopo l’invasione dell’Ucraina e ha sempre frenato quando sono state proposte nuove sanzioni. Giorgia Meloni si è schierata invece al fianco degli Stati Uniti e degli altri alleati atlantici prima ancora di vincere le elezioni. Come possono Italia e Ungheria collaborare in Europa dinanzi a una differenza simile?
«Non intendo commentare la definizione che lei dà delle nostre relazioni con la Russia. Dico solo che per noi è una questione di pragmatismo. L’80% delle nostre forniture di gas viene dalla Russia e il 90% delle nostre abitazioni domestiche si riscalda con il gas. Non possiamo far morire le nostre industrie e le nostre famiglie: se vogliamo avere energia per il nostro Paese, dobbiamo fare affari con Mosca».

L’Italia era in condizioni simili, ma ne sta uscendo.
«L’Ungheria è un Paese senza sbocchi sul mare e diversificare gli approvvigionamenti energetici per noi non è facile. Negli ultimi decenni il governo conservatore ha fatto il possibile per creare interconnessioni con gli Stati che ci circondano, ma i gasdotti che ci uniscono a Slovacchia e Austria non cambiano il fatto che la fonte principale è sempre il gas russo. Ci stiamo lavorando, ma non intendiamo passare dalla dipendenza dalla Russia alla dipendenza dagli Stati Uniti. È interesse dell’Ungheria e dell’Europa avere almeno cinque o sei fornitori diversi. Le opportunità per diversificare ci sono, le alternative possono venire dal nord Africa e da Paesi come l’Azerbaijan».

 

 

 

Il bisogno di gas russo mette in discussione il vostro allineamento atlantico?
«La nostra collocazione strategica è una cosa diversa dal gas. Siamo e intendiamo rimanere partner degli Stati Uniti e membri della Nato e della Ue, ma non possiamo difendere il nostro interesse nazionale senza fare un compromesso, come è accaduto lo scorso giugno quando fu deciso l’embargo al petrolio russo. In quel caso, ottenendo una deroga per noi, abbiamo aiutato anche le regioni orientali della Germania, la Slovacchia e altri Paesi. E questo non ci ha impedito di condannare l’aggressione russa sin dal primo momento, di schierarci per l’indipendenza e l’integrità territoriale dell’Ucraina e di essere stati tra i primi a candidare l’Ucraina come membro della Ue. Quindi il punto non è se stiamo con gli altri: ci stiamo, ma vogliamo che ci sia discussione, anche sugli strumenti da usare per fermare il conflitto».

Voi come vorreste fermarlo?
«Non crediamo che l’escalation nell’invio delle armi possa servire: è molto pericolosa, rischia di finire in uno scontro nucleare. L’unico modo per fermare il conflitto è un immediato cessate il fuoco. L’opinione pubblica ungherese vuole la pace, è spaventata dalla guerra e noi, essendo un governo responsabile, dobbiamo rispettarla».

A proposito di collaborazione con l’Italia: il presidente Sergio Mattarella ha detto che il trattato di Dublino e le altre regole che impediscono la redistribuzione dei migranti sono «preistoria». Il vostro governo sinora si è sempre opposto al ricollocamento. Cosa chiedete per cambiare posizione?
«Sono d’accordo col presidente Mattarella quando dice che il trattato di Dublino è sorpassato. Fu pensato in un periodo in cui l’immigrazione non era massiccia come adesso ed è incapace di affrontare il fenomeno cui assistiamo oggi. Ma introdurre un meccanismo di ricollocamento sarebbe come spedire lettere d’invito a chi vive fuori dalla zona Schengen, e su questo non cambieremo la nostra posizione. Occorre una strategia completamente nuova, motivo per cui le cose non possono funzionare con un “do ut des”, come ipotizza lei. Non dobbiamo affrontare le conseguenze dell’immigrazione, ma le cause che la originano. Anziché portare il problema in Europa, dobbiamo portare la soluzione laddove il problema nasce».

Se ne parla da tempo, ma di concreto non si è visto nulla.
«Le cose stanno cambiando. Mi ha fatto piacere che Manfred Weber, leader del Partito popolare europeo, che sinora non era stato capace di dire nulla sulla costruzione di barriere fisiche o sulla protezione dei confini, adesso sostenga che occorre fermare l’immigrazione illegale ottenendo la collaborazione dei Paesi terzi tramite l’aiuto della Commissione europea, che ha le risorse finanziarie per farlo. Gli immigrati devono essere fermati prima che raggiungano le frontiere europee, anche la decisione sulla concessione dell’asilo essere presa molto prima che si presentino lì».

Fidesz, il partito suo e di Orbán, sino a due anni fa stava nel Ppe, ma adesso, in Europa, non fa parte di alcun gruppo. Che ci fate nella terra di nessuno?
«Siamo nella terra dei forti e siamo felici. Fidesz ha vinto le elezioni un anno fa ottenendo una super-maggioranza e se si votasse oggi, secondo i sondaggi, vinceremmo con gli stessi numeri. Anche se non apparteniamo ad una famiglia europea, siamo membri della grande comunità della destra continentale, che si va rafforzando e deve avere un unico obiettivo: convincersi che può sconfiggere la sinistra e ottenere la maggioranza nelle elezioni europee del prossimo anno».

Obiettivo ambizioso e difficile.
«Io credo ci siano ottime possibilità di riuscirci. Progressisti, socialisti e liberal di sinistra non sono capaci di dare risposte ai veri bisogni dei cittadini europei. Al fianco del popolo, oggi, ci sono le destre e i conservatori, come dimostra anche il governo Meloni. Le elezioni dei prossimi mesi in Polonia e in Spagna potranno dare nuova spinta alla destra».

E cosa cambierebbe in Europa con una vittoria della destra?

«Se i nostri eletti e quelli degli altri partiti di destra, sommati, saranno maggioranza nel prossimo parlamento europeo, forse potrà iniziare una nuova era. Con una nuova commissione, in cui la burocrazia e le Ong non potranno più prevalere sul processo democratico. E a dettare la linea della Ue saranno i leader degli Stati membri, non un’amministrazione europea che persegue la propria agenda politica».

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