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Onu, donne e bimbi ebrei contano meno dei palestinesi

Claudia Osmetti
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Sono dovuti passare due mesi, dopo il pogrom dei tagliagole di Hamas del 7 ottobre 2023, affinché l’Unwomen, che è l’ente dell’Onu per l’uguaglianza di genere e l’emancipazione femminile, si degnasse di dire che sì, le sevizie patite dalle donne ebree in quelle ore di efferatezza e disumanità erano una barbarie vergognosa e che no, non le si poteva proprio tollerare.

Hanno dovuto chiederla, la dichiarazione di condanna, le dirette interessate e gli istituti (seri) come il Jij, il Jerusalem institute of justice. Per leggere due righe di Sima Bahous (la direttrice dell’Unwomen) ci sono volute le inchieste del New York Times, delle televisioni di Tel Aviv e della Commissione civile israeliana sui crimini di Hamas contro le donne e i bambini: altrimenti era il silenzio. E anche adesso, che chi ha un briciolo di dignitosa intelligenza non si fa prendere dal dubbio circa l’orrore del massacro antisemita nel sud dello Stato ebraico, i comunicati dell’Unwomen liquidano con poche frasi di circostanza l’accaduto rimarcando però, e qui senza nessun tentennamento, la loro posizione al fianco delle donne di Gaza.

 

 

 

A SENSO UNICO

E cioè: «Gli ultimi cento giorni hanno visto piovere sulla popolazione di Gaza una distruzione senza precedenti»; «c’è una crudele inversione di tendenza rispetto alla situazione precedente al 7 ottobre: oggi il 70% delle persone uccise sono donne e bambini»; «questo fallimento, e il trauma generazionale inflitto al popolo palestinese, ci perseguiteranno per le generazioni a venire». Dichiarazioni che potrebbero essere condivisibili poiché le donne sempre, in tutte le guerre e quindi anche in questa, sono le prime vittime e non c’è appartenenza sociale o religiosa o nazionale che faccia la differenza. Ma si tratta di dichiarazioni intrise, di nuovo, dell’onnipresente retorica filo-palestinese che fa capolino in espressioni come «i territori occupati» che sono quantomeno imprecise (se non, alla luce del diritto internazionale, scorrette).

 

 

 

Un trattamento non molto distante da quello riservato alle coraggiose donne iraniane (l’ultimo intervento “significativo” dell’Unwomen risale al 15 settembre del 2023, un anno dopo la morte di Mahsa Amini), alle sfortunate donne afghane (fatto salvo l’attivismo della pagina Twitter dell’ente in un Paese, tra l’altro, che non è propriamente connesso alla banda larga), con qualche considerazione in più per le combattive donne ucraine (il rapporto 2022 per «garantire la parità di genere durante la guerra» è un catalogo di ben nove pagine).

All’Unwomen lavorano più di 2mila persone che farebbero bene a preoccuparsi (anche) della parità di genere all’interno dell’Onu stessa, visto che il computo degli impiegati, lì, come altrove nel mondo, pende per Ia stragrande maggioranza sul dato maschile: su oltre 72mila dipendenti, poco più di 30mila sono donne, meno della metà. Tuttavia la costola delle Nazioni unite per questo genere di questioni ha previsto un bilancio integrato per il periodo 2022 - 23 di un miliardo di dollari in contributi volontari, che bruscolini non sono. Un discorso analogo vale per l’Unicef. Una delle ramificazioni più note della’Onu, sicuramente una delle più finanziate specie con le donazioni. L’Unicef conta su un budget complessivo di circa 26 miliardi di dollari nel quadriennio 2022 - 25, di questi soldi ne spenderà all’incirca 23,4 per i vari programmi in agenda. Ma quali?

 

 

 

LA PARTNERSHIP

Al momento i principali siti nazionali dell’Unicef (compreso quello italiano) hanno in primo piano l’indiscussa tragedia umanitaria dei bambini di Gaza: richieste e proclami di progetti, che però non hanno avuto un corrispettivo il 7 ottobre. Al di là di qualche parola dovuta, i bimbi di Sderot o di Be’eri o di Ofakim o quelli sfollati nelle tendopoli di Eilat non hanno smosso le coscienze collettive occidentali. Nell’aprile del 2022 (e non perla prima volta) l’Unicef ha annunciato una sorta di “partnership” con la Lega mondiale musulmana (quella che quattro mesi fa s’indignava per l’escalation di violenza in Medioriente addossando l’intera colpa a Israele e che, secondo la rivista Usa Newsweek, avrebbe avuto contatti addirittura con Osama Bin Laden) per l’ammodernamento di alcune scuole coraniche in Africa.

Classi bilingue, che non studiano solo il Corano ma anche la matematica e la scienza, aperte alle bambine: il che è meritorio, ma è (ancora) lontano da standard d’istruzione accettabili. L’Unicef, infine, nella smania che ha di aggiornare il totale dei bimbi palestinesi vittime della guerra (senza chiedersi, tuttavia, vittime di chi? Di chi ha deciso una controffensiva per difendersi o di chi li usa come scudi umani per difendere invece i propri miliziani?), si dimentica costantemente di un dato: quello dei 17mila bambini soldato reclutati a Gaza, vestiti come baby kamikaze e pronti a morire perché istruiti a combattere il “pericolo sionista” (istruiti nel senso che i 230mila ragazzini che nella Striscia vanno a scuola studiano su libri di testo, per l’acquisto dei quali bisognerebbe “ringraziare” anche l’Unione europea, che cancellano Israele dalle cartine geografiche e fanno della propaganda una materia didattica). Non c’è solo l’Unrwa, ossia lo scandalo più visibile di questa settimana: l’Onu (con l’Unwomen che piange le donne di Gaza ma solo se è “colpa” di Israele: quando a togliere loro i diritti sono i jihadisti non si solleva lamentela; e con l’Unicef che sui bambini palestinesi fa più o meno altrettanto) non si smentisce mai.

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