Una procura di provincia. Di quelle piccine, con otto sostituti procuratori in totale. Di quelle dove ci si conosce un po’ tutti (dentro e fuori il tribunale) e dove i dossier scottanti, quelli coi riflettori nazionali puntati addosso, capitano di rado. Però quando capitano travolgono ogni cosa. A Pavia non c’è solo il caso Garlasco, le inchieste (necessariamente al plurale) sull’assassinio di Chiara Poggi: due visioni differenti, antitetiche, apparentemente contraddittorie anche nella tesi di fondo.
Quella dell’allora procuratore capo Mario Venditti, convinto che Andrea Sempio, col delitto, c’entrasse no; e quella del suo successore, Fabio Napoleone, sicuro (oggi) dell’esatto contrario tanto da far riaprire un faldone con un’accusa nuova e pesantissima come il concorso in omicidio. A Pavia, c’è, soprattutto, o almeno sembra esserci, una sorta di cortocircuito che finisce, sì, a Garlasco ma che comincia altrove, lontano dalla villetta a due piani di via Pascoli, dalla roggia di Tromello e pure dal parcheggio di Vigevano.
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Inizia, semmai, a Roma. Al palazzo dei Marescialli che è la sede del Csm. È il 2021 quando l’organo di autogoverno della magistratura firma il trasferimento (niente di eclatante, è la prassi) di Napoleone sul Ticino. È un enfant prodige con la toga sulle spalle, Napoleone: barese, magistrato ad appena 24 anni, giudice a Milano fino al 1987, procuratore a Sondrio nel 2008, membro del Consiglio superiore fino al 2019, anno in cui ritorna in forze a Milano e dove ci resterà per circa 36 mesi prima di ottenere la designazione, appunto, a Pavia.
Messo piede nel palazzo di giustizia della bassa lombarda, Napoleone non riparte da zero. Nel senso che spulcia, approfondisce, riguarda gli atti delle indagini del passato che lo hanno preceduto. Non gli interessa Garlasco, quantomeno non gli interessa più di altre vicende: vuole invece sondare un sospetto, assai più grave, legato a un presunto sistema di corruzione che forse si sta mangiando ogni cosa, dalla politica agli enti locali, forse addirittura con alcuni appartenenti alle forze dell’ordine coinvolti. Qualcuno parla di “sistema pavese”, di possibili depistaggi: cosa che sia deve ancora approdare in un tribunale, quindi deve ancora essere provata, e noi di Libero siamo geneticamente garantisti con tutti, senza eccezione.
Non ci interessa sapere chi ha ragione, se del caso interverranno le sentenze: importa, qui, ora, capire che si tratta di una bomba a orologeria pronta a esplodere. E, in effetti, deflagra (anche se lì per lì lo scoppio non ha un’eco mediatica): ad aprile del 2025 la procura di Pavia riempie uno scatolone di carte e di documenti e lo spedisce ai colleghi di Brescia (che sono i soli titolati a indagare sui magistrati pavesi), dice fate-voi-gli-accertamenti e segnala che, in mezzo al materiale raccolto, c’è anche Venditti in relazione all’ex gestione degli uffici di cui era responsabile.
L’INCHIESTA CLEAN
Parlare di uno scontro aperto, probabilmente, è eccessivo e fuori luogo. Di un’operazione di pulizia è, invece, abbastanza pacifico (difatti l’inchiesta che segna l’avvio dell’era Napoleone a Pavia si chiama “clean 2”, dall’inglese “pulito”, e, come suggerisce il numero a fianco al nome, non è nemmeno la prima, è semplicemente una costola di un’indagine ancora più ampia, ma riesce comunque ad arrestare due dei carabinieri che per anni sono stati nella fila degli investigatori della procura, il maggiore Maurizio Pappalardo e il maresciallo Antonio Scoppetta).
In tutto questo calderone, il minestrone di Garlasco non ribolle ancora. Epperò più passa il tempo più diventa chiaro che se il presupposto è una messa in discussione dell’operato che fu, e nell’operato che fu c’è anche quel fascicolo, allora può cambiare tutto. E infatti rispunta, il caso Poggi, rivisto sotto una luce ribaltata la quale, a ben vedere, parte dagli stessi elementi che c’erano nel 2007 e che sono stati o ignorati o trattatati in maniera diversa o archiviati secondo altre logiche. Il dna, le impronte, lo scontrino. Con pure due precedenti: uno del 2018, quando il procuratore milanese Alberto Nobili si è imbattuto nel caso e ha suggerito ai colleghi di Pavia, con una nota indirizzata proprio a Venditti, di rivalutare alcuni «elementi che potrebbero non mettere fine alla vicenda giudiziaria» ma non ne è seguito nulla, e uno due anni dopo, quando un difensore di Stasi ci ha riprovato, con le stesse basi, ottenendo prima uno spiraglio e poi un’ennesima archiviazione.
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Fare dietrologia, adesso che le perquisizioni, gli interrogatori e gli incidenti probatori hanno riacceso il tam-tam sui giornali e nelle tivù, vale fino a un certo punto: che Napoleone (non è secondaria neppure la decisione di impegnare sull’inchiesta bis di Garlasco più di un terzo dei sostituti procuratori disponibili: ossia Giuliana Rizza, Valentina De Stefano e l’aggiunto Stefano Civardi) e Venditti siano due magistrati con una visione differente di cosa sia successo quella maledetta notte di agosto è indubbio, ma è anche legittimo. Che il primo sia riservatissimo e parco di dichiarazioni al pari della sua squadra, mentre che il secondo (oramai in pensione e dal 2023 presidente del casinò di Campione d’Italia) abbia commentato «sono calunnie» in merito all’accusa che sta vagliando la procura di Brescia e «non dico niente, non è opportuno, eventualmente parlerò più avanti se ci saranno sviluppi» circa Garlasco, idem. Che il quadro, tuttavia, preso nel suo complesso, consegni una lettura molto più articolata, molto più profonda, molto più arzigogolata è un fattore che, tralasciarlo, sarebbe un errore. E di errori, in questa vicenda che si trascina da quasi diciotto anni, con una sentenza passata in giudicato e la prospettiva non così sfumata di una revisione davanti, finisca in un senso oppure nell’altro, ne abbiamo visti fin troppi.