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La Toscana tarocca la felicità made in Usa

Eugenio Giani con la parrucca di Thomas Jefferson è un fotomontaggio mal riuscito, si sarebbe detto in un’altra era, oggi è un meme sbilenco, un crossover sgangherato
di Giovanni Sallustigiovedì 20 novembre 2025
La Toscana tarocca la felicità made in Usa

3' di lettura

Eugenio Giani con la parrucca di Thomas Jefferson è un fotomontaggio mal riuscito, si sarebbe detto in un’altra era, oggi è un meme sbilenco, un crossover sgangherato, fondamentalmente un ossimoro. Spieghiamo, con richiesta di scuse preventiva al Padre Fondatore e terzo presidente degli Stati Uniti d’America. E precipitiamo subito di livello: dice tal Bernard Dika, neo sottosegretario alla presidenza della giunta toscana, che oggi verrà presentato il governo regionale. Seguiranno quindi l’insediamento e il primo atto ufficiale, un filo più prevedibile del sorgere del sole: il “riconoscimento dello Stato di Palestina” (pare Netanyahu abbia convocato un gabinetto di guerra d’emergenza).

A ruota, l’approvazione della “riforma statutaria” che prevede “il diritto alla cittadinanza digitale” (più o meno il piagnisteo wokista applicato alla Silicon Valley) e - qui sta il succo filosofico, anche se più in zona patafisica che metafisica - «l’inserimento del diritto alla felicità». Il quale fa il suo ingresso trionfale nei «principi fondamentali della Regione», in applicazione letterale del programma di mandato della giunta Giani. Con cui, par di capire, l’amministrazione si eleva da quisquilie quotidiane come la manutenzione dell’esistente, e arriva a farsi garante di quella situazione emotiva sempre precaria e inafferrabile che è la realizzazione dell’individuo con sé stesso, la pienezza esistenziale.

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Un’idea, si legge nel documento, ispirata «dall'illuminista toscano Filippo Mazzei che ebbe un'influenza significativa sul presidente Thomas Jefferson per l'inserimento della frase sul “diritto al perseguimento della felicità” nella Dichiarazione di Indipendenza». Ora, la vicinanza intellettuale e personale tra i due è assodata, anche se il suo peso per l’elaborazione dell’inedito e folgorante «diritto al perseguimento della felicità» è sopravvalutato con ottimismo campanilistico, diciamo. Il punto però sta altrove, precisamente in quella parola perduta: “perseguimento”. Se la cancelli, cancelli un cosmo semantico, politico, valoriale. E ne spalanchi un altro, addirittura opposto. Scolpire tra gli “inalienabili diritti” di “tutti gli uomini” il “perseguimento della felicità” significa infatti porre a fondamento della polis la tutela di un processo, di una tensione, di una ricerca ininterrotta che è un tutt’uno con l’umano: la libertà di costruire (eri-costruire) da sé il proprio significato.

Per usare le categorie del grande pensatore liberale Isaiah Berlin, quella di Jefferson e degli altri coloni in armi contro il re-tiranno è anzitutto una “libertà negativa”, una libertà “da”: da interferenze esterne, coercizioni statali, intrusioni del potere pubblico nella sfera inviolabile dell’autodeterminazione individuale. Il “perseguimento della felicità” sarà anzitutto quello del cowboy a cavallo, che avanza costruendo la (sua) Frontiera.

Se invece lo Stato, o la Regione, o qualunque altro mini-Leviatano, deve garantirti “il diritto alla felicità” tout court, cambia tutto. Non è più il percorso (o meglio gli infiniti percorsi esistenziali delle persone), è il punto d’arrivo. È il Paradiso trascinato in terra con timbro d’autenticazione del Politburo, sia nella versione tetro-moscovita che in quella parodistico-fiorentina. È il governo che ti garantisce realizzazione terrena e serenità d’animo, è riflesso totalitario, seppur col volto pacioso di Giani e tutta l’orchestra schleiniana dei buoni sentimenti in sottofondo.

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