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Vittorio Di Trapani, il compagni nemico dei lavoratori e campione di autogol

Francesco Specchia
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A prima vista, Vittorio Di Trapani, napoletano, classe ’75, una moglie e un figlio, barba rada, gesti misurati, tendenza al sussurro, sembra un democristiano. Sembra. È soltanto una finta. Basta ascoltarlo cinque minuti, oggi, nella furiosa disputa tra sindacati di sinistra e destra ad infiammare la Rai, che subito Di Trapani ti appare biblico e vendicativo un po’ come un Maurizio Landini del giornalismo, un Togliatti di viale Mazzini, un Ho Chi Minh della gestione sindacalizzata del servizio pubblico. La sua parola resta piombo fuso sulle decisioni della associazione degli scribi d’Italia. E non solo. Ieri, alla notizia che nella diga del blocco sovietico Usigrai si stava allargando la falla dell’Unirai (il “controsindacato” di destra che non ha aderito allo sciopero nazionale da lui indetto per motivi politici); bè, in quel mentre, a Vittorio, presidente della Federazione Nazionale della Stampa, già onnipotente segretario dell’Usigrai è partito l’embolo.

Prima, in conferenza alla Stampa estera, il nostro ha esternato: «La libertà è anche di chi non vuole scioperare, ma è illegittimo che una minoranza si organizza con cambi di turni e si metta a disposizione per tentare di far fallire uno sciopero. C’è un attacco alle libertà costituzionali». C’è un attacco alle libertà costituzionali. Il che è vero. Solo che l’attacco è Di Trapani. Sia perché la Costituzione tutela la libertà di associazione e quella di non associazione; sia perché la sentenza n.32 del 17/3/69 della Corte Costituzionale stessa presieduta da Sandulli sancisce l’assoluta equipollenza fra il diritto di scioperare e quello di non scioperare. 

 

 

Di Trapani, però s’è infervorato ulteriormente, aggiungendo: «Vorrei anche dire che se una minoranza riesce a mandare in onda un’edizione del tg dimostra solo che la maggioranza è in esubero. Se qualcuno in futuro proporrà esuberi in Rai saprà a chi citofonare. Non si sta facendo un danno alla sigla sindacale ma a tutta la redazione». Anche se, in realtà, è l’esatto contrario. A fare esaltare gli esuberi è stata, semmai, la pretesa di indire uno sciopero abbastanza grottesco sul crollo della libertà di stampa in Italia secondo l’European media Freedom Act (oggi siamo al 41° posto, ma nel 2022 eravamo al 58°; la Meloni era all’opposizione e, curiosamente non fregava nulla a nessuno...) nonché sulla presunta invasione nazifascista della Rai. E proprio laddove AgCom e Osservatorio di Pavia assegnavano, dal 2005 ad oggi, il maggior tempo di presenza televisiva a Schlein e la maggior lottizzazione al Partito Democratico. Una faccia di tolla strepitosa. E infatti il troppo stroppia.

 


Di conseguenza, a non aderire allo sciopero sono stati sia i non iscritti all’Unirai che gli iscritti all’Usigrai dello stesso Pd: gente che ne ha le scatole piene di un sindacato totalitario che negli anni insufflava nei suoi iscritti sempre la sensazione di stare sul set totalitario de Le vite degli altri. Addirittura tra Tg1 e Tg2 hanno aderito alla mobilitazione meno della metà dei giornalisti in organico. «L’obiettivo è silenziare qualsiasi voce critica, di dissenso e di contestazione», continua Di Trapani. Ed è vero, ha ragione. «Silenziare» è esattamente la strabiliante torsione della realtà in cui si sta producendo l’Usigrai oramai condannato a vivere quella che lo psichiatra Paolo Crepet chiamerebbe “sindrome da fantasia compulsiva” del pensiero – e del sindacato – unico. Trattasi, tra l’altro, di una patologia già riscontrata nel Pd. 

 


Sicché, mentre l’Usigrai spara sgraziantamente contro il concetto costituzionale del «più sindacati, più democrazia»; e mentre lo stesso sindacato spinge nella notte del suo scontento sempre più tra offese personali ai “crumiri” e comunicati indignati di fatto ciclostilati in fogli Excel; be’, ecco che la figura di Di Trapani s’avvolge all’improvviso d’oscurità. Specie in merito alla storiaccia di un ammanco da centomila euro (pare siano 300mila) dalle casse Usigrai, denaro degli iscritti ai tempi del nostro. L’ammanco è stato denunciato, ma con l’ammanco è saltato fuori che chi doveva tenere i conti non era un revisore, ma “un mezzo revisore” e dall’indagine in corso potrebbe emergere la responsabilità diretta di Di Trapani.

 


Di Trapani, dal suo presidio di redattore in aspettativa del sito Rai ha accumulato, negli anni, potere immenso, reti di conoscenza e capacità di controllo tutt’interne a viale Mazzini. In redazione, a RaiNews, l’hanno sempre visto pochino. Sindacalista da sempre, nato e fortificato sin dai tempi della Scuola di Giornalismo di Perugia (dove, già allora, rappresentava i precari), negli anni, Vittorione si è fatto latore di una lobby potente che ha spesso influito sulle assunzioni, nomine e trasferimenti interni. C’è stato un momento – nel limbo tra l’impegno in Usigrai e in Fnsi- che, tornato tra i mortali in redazione, l’uomo svolgeva con zelo addirittura una mansione superiore a quella assegnatagli, «come se fosse un vicedirettore, d’altronde tra i colleghi ne ha fatti assumere molti lui», confida un suo ex sodale. Roba anti-sindacalissima. Questa cosa, tra l’altro, suscitò un’interrogazione di Maurizio Gasparri, notoriamente un martello inesausto contro la “sacralità a striature bolsceviche” dell’Usigrai. «C’era in Rai un redattore ordinario che svolgeva una mansione superiore alla sua qualifica. Io ho affermato una verità e questo fa emergere un comportamento singolare».

 

Insomma. Strattonato tra tutto questo imprevisto frastruono polifonico sindacale, ora Di Trapani borbotta di «orbanizzazione» della cultura del Paese; e del pericolo di «una destra illiberale» magari un tantinello nazifascista a Viale Mazzini. Per questo urge il suo ennesimo sacrificio. Di Trapani pare infatti abbia già consegnato il suo curriculum per insediarsi nel prossimo cda Rai. Si entra nel sistema, per combatterlo. O, ancora una volta, per accomodarsi negli anfratti della rivoluzione... 

 

 

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