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Mario Draghi, dopo le elezioni nasce il "suo" partito: retroscena, ecco tutti i big coinvolti nel piano

Fausto Carioti
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La morale del voto di domenica è chiara: il centrodestra unito vince, mentre il Pd esce a pezzi quando accanto al nome dei suoi candidati a sindaco c'è il simbolo del M5S. Accade a Genova, L'Aquila e Palermo, ed è la certificazione del fallimento della strategia nazionale di Enrico Letta. Il quale, in compenso, può sognare di fare il colpaccio tra due settimane a Verona, dove sulle schede non c'era traccia dei grillini.

Se la legge elettorale non cambia, significa che al segretario del Pd i Cinque Stelle non bastano più. Per fermare il centrodestra nel 2023 dovrà imbarcare anche Azione e Italia Viva, che però sono incompatibili con Giuseppe Conte e le sue truppe. Il voto, insomma, ha dimostrato al segretario del Nazareno che la sua coperta è troppo corta, e al capo politico del M5S che la strategia tenuta sinora è fallimentare. Se perché troppo critica verso l'esecutivo, o troppo prona, è argomento di discussione nel movimento.

 

La debolezza di Conte è anche il problema di Mario Draghi, ora più grosso di prima. Il presidente del Consiglio ha scelto di allontanarsi, pure simbolicamente, dalle baruffe italiane. Ieri e oggi è in visita in Israele e il 23 giugno inizierà un tour de force che lo porterà al Consiglio Ue, alla riunione del G7 e al vertice Nato. Le prime brutte notizie potrebbero arrivargli in mezzo a queste date.

Il 21 giugno sarà in Senato ad annunciare la linea che terrà in quegli appuntamenti internazionali. Dopo aver minacciato di fare sfracelli per impedire la spedizione di armi, Conte era stato convinto dai vertici del Pd a votare una risoluzione dai toni solenni, ma priva di effetti pratici.

Quello, però, non era il leader di un movimento uscito asfaltato dalle amministrative. Come reagirà adesso è da vedere. L'ala dei parlamentari contiani che vuole cogliere l'occasione per strappare con Draghi non è maggioritaria nel M5S, ma da ieri è convinta di avere buoni argomenti in più. Già oggi si capirà qualcosa. Ogni partito dovrà infatti "segnalare", tra gli emendamenti presentati al decreto Aiuti, quelli cui tiene di più. Ed è previsto che il M5S indichi la proposta che cancella la norma che dà il via libera all'inceneritore romano voluto dal sindaco Roberto Gualtieri. Significherebbe avere pronto il pretesto col quale rompere, in un colpo solo, col governo e con il Pd.

A Letta, a quel punto, non resterebbe che sperare in una riforma della legge elettorale in senso proporzionale, che libererebbe ogni partito dall'obbligo di accordi elettorali. Draghi dovrebbe invece contare quanti parlamentari restano nella maggioranza, e decidere se andare avanti o salutare tutti, con lo spread schizzato a livelli stellari.

A sinistra molti sperano che a strappare sia invece Matteo Salvini, motivato dalla necessità di inseguire Giorgia Meloni. È difficile, però, che siano accontentati. Il voto di domenica dimostra che il centrodestra, se prosegue su questa linea, ha ottime probabilità di vincere le Politiche, e nella Lega c'è sempre un partito interno, formato dai ministri e dai governatori, che intende tirare dritto con Draghi almeno sino alla scadenza della legislatura. Tutto fa credere, insomma, che Salvini tirerà la corda col premier sui temi economici e gli aiuti a imprese e famiglie, puntando però a incassare qualche risultato tangibile e non la fine del governo.

 

Per paradosso, le stesse elezioni hanno consegnato a Draghi un embrione di quello che potrebbe essere il suo "partito", anche se lui non accetterebbe mai di guidarlo. L'ottimo risultato delle liste di Carlo Calenda e del tandem Giovanni Toti-Gaetano Quagliariello e la presenza («decisiva», assicura Matteo Renzi) dei candidati di Italia viva a sostegno di Marco Bucci a Genova significano che qualcosa, dalle parti del centro, è germogliato. Nel giro di un anno queste sigle potrebbero consolidarsi nello schema bipolare destra-sinistra oppure mettere radici e crescere per conto loro, allungando la vita politica di Draghi.

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