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Pd e cosche, bavaglio alle indagini: "I dem non si possono toccare"

Paolo Ferrari
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«La Procura non ha indagato sul Pd» dicono gli avvocati. «Falso, le indagini sono state fatte», rispondono le toghe. Non ha precedenti lo scontro in atto da giorni, e silenziato dai grandi giornali, fra l’Ordine degli avvocati di Reggio Emilia e l’Associazione nazionale magistrati. Ad accendere gli animi sono state alcune recenti dichiarazioni dell’ex sostituto procuratore nazionale antimafia Roberto Pennisi. L’alto magistrato, in via Giulia fino allo scorso anno, commentando le sue inchieste contro le infiltrazioni dell’ndrangheta in Emilia aveva affermato che gli venne “impedito” di indagare sui rapporti fra le cosche e i vertici locali del Pd.

«Non si vollero toccare i politici dem», disse Pennisi a proposito della maxi inchiesta Aemilia, la prima contro la criminalità organizzata calabrese nel Nord Italia. Pennisi era stato mandato dall’allora procuratore nazionale Antimafia Franco Roberti, attuale europarlamentare del Pd, a Bologna per dare una mano ai colleghi delle Direzione distrettuale. Il magistrato, in particolare, avrebbe dovuto coordinare, vista la sua comprovata professionalità maturata in indagini antimafia, le attività del pm Marco Mescolini, titolare del fascicolo.

Prima della chiusura delle indagini e della maxi retata con oltre 160 arresti, del 28 aprile del 2015, Pennisi aveva però fatto ritorno a Roma, senza essere confermato nell’incarico.

 

 

 

La toga antimafia aveva predisposto una sua informativa, diversa da quella Mescolini, in ordine all’individuazione delle persone da colpire o meno con il provvedimento restrittivo. E aveva tenuto da parte la “miccia”, cioè qualcosa da lasciar fuori per proseguire l’inchesta.

«Il collega Mescolini - affermò Pennisi - mise solo in parte alcuni aspetti della mia informativa. E fu la sua ad andare al gip. Avevo stilato anche uno stralcio per il passaggio delle indagini ad altri livelli».

Lo stralcio, però, non avvenne e nel mirino della magistratura finirono soltanto 2 esponenti di Fi, Giuseppe Pagliani e Giovanni Bernini, rispettivamente capogruppo a Reggio Emilia e assessore a Parma, nonostante fra le migliaia di intercettazioni telefoniche erano emersi tantissimi indicatori di un rapporto organico fra esponenti Pd e dei clan calabresi su appalti e voti.

«Non è pensabile che la sinistra che governa ininterrottamente dal 1945 l'Emilia Romagna e soprattutto Reggio Emilia, epicentro riconosciuto dei clan calabresi al Nord, non abbia mai avuto contezza dell’ndrangheta», disse Bernini all’indomani del suo completo proscioglimento.

 

 

 

«A Reggio Emilia i cutresi hanno fatto per anni ogni genere di affare: appalti, costruzioni, servizi. E vogliamo credere che ciò sia avvenuto senza l’avallo del territorio?», aggiunse Bernini che sulla sua vicenda penale ha scritto anche un libro dal titolo Storie di ordinaria ingiustizia. Questo trattamento di “favore” da parte dei magistrati nei confronti dei politici del Pd ha provocato il “disappunto” degli avvocati reggiani. L’autonomia della magistratura «è assenza di condizionamento e rispetto delle regole», scrivono gli avvocati in un comunicato diffuso l’altra settimana. «Il sistema democratico si fonda sull’eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge», proseguono gli avvocati.

Accuse, come detto, respinte al mittente dall’Anm che lo scorso fine settimana ha parlato di «mere illazioni che rischiano di delegittimare un lavoro di enorme portata, condotto con serietà». Quello dell’Anm è «un intervento maledestro», ha contro replicato Bernini, ricordando l’allontanamento a cura del Csm di Mescolini da Reggio per i suoi rapporti con il Pd, e annunciando l’esistenza di una relazione nella quale Pennisi sotolineava le “criticità” nella conduzione delle indagini. Sull’esistenza di tale relazione è stata presentata un’interrogazione di Gianluca Vinci (Fdi) a Nordio. La risposta da via Arenula è attesa nei prossimi giorni.

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