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Mafia Capitale, inizia il processo d'appello: rischia un nuovo stop

Giulio Bucchi
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Che tipo di processo sarà l'Appello di “Mafia Capitale”? Certamente, quello che si celebrerà da oggi davanti alla III corte d'Appello presieduta da Claudio Tortora, sarà un dibattimento tutto da (ri)scoprire. A partire dalla mossa a sorpresa degli avvocati di Salvatore Buzzi che, vista l'impossibilità di ottenere per il loro assistito la presenza in Aula anziché in videoconferenza (“nonostante sia caduta l'associazione mafiosa e non esista più norma che lo vieti”), sarebbero intenzionati a farlo ritirare dal processo. Ovvero a non farlo più intervenire direttamente, per eccepire in Cassazione la violazione del diritto alla difesa. A sostenere l'accusa, di nuovo nell'Aula bunker di Rebibbia, ci sarà il sostituto procuratore generale Pietro Catalani, affiancato dal pm del primo grado Luca Tescaroli e Giuseppe Cascini. Per la Procura generale, si riparte dalle stesse premesse: la riconferma del 416 bis per i 17, tra i 46 imputati, a cui era stata originariamente contestata l'associazione mafiosa. Ma il dubbio, condiviso a denti stretti da alcuni magistrati, riguarda proprio il cuore dell'inchiesta “Terra di mezzo” che – a partire dai primi clamorosi arresti del 2 dicembre 2014 - terremotò la capitale, portando in carcere politici, imprenditori, pubblici ufficiali. Accusati di fare parte di un'associazione mafiosa capeggiata dal “nero” Massimo Carminati e dall'imprenditore “rosso” Buzzi. Al centro delle 230 udienze celebrate in primo grado, il famigerato articolo 416 bis. Reato pesantissimo, fatto cadere il 20 luglio 2017 dalla sentenza emessa dai giudici della X Sezione penale di Roma, che hanno “scardinato” l'associazione mafiosa in due distinte associazioni a delinquere “ordinarie”. Una finalizzata alla commissione di reati tipicamente da strada come l'usura e le estorsioni (l'associazione cosiddetta “del benzinaio”, dal distributore Eni di Corso Francia dove i presunti sodali del Nero si riunivano); l'altra, rappresentata dai vertici della coop 29 Giugno e da colletti bianchi, orientata ad accaparrarsi appalti della Pubblica amministrazione tramite sistematiche corruzioni e turbative d'asta. Dei 500 anni di carcere richiesti complessivamente dalla Procura di Roma in primo grado, il tribunale ne ha comminati 250, di fatto dimezzandoli. E con il venire meno del 416 bis, a detta del collegio giudicante anche per la debolezza della “carica intimidatrice nascente dal vincolo associativo” - quella “riserva di violenza” che i magistrati dell'Appello definiscono, nel loro ricorso di 62 pagine, “una violenza trattenuta e potenziale, come una malattia in incubazione” – qualcosa pare destinato a cambiare. Anche sulla scia della critica per l'eccessivo risalto mediatico dell'arresto di Carminati, avanzata lo scorso ottobre dal capo dell'Antimafia milanese Ilda Boccassini. “Cautela” è la parola d'ordine. Una realpolitik, condivisa da più di una toga: “Se in Appello riesci a ottenere il bis, le pene sono adeguate. Se invece riproponi delle pene mostruose e perdi, il rischio è una sconfitta su tutto il fronte. E se perdi, la sberla è doppia e te la ricordi per sempre”. In quest'ottica, non rappresenta un buon segnale, alla vigilia dell'Appello, la concessione degli arresti domiciliari disposta dal tribunale del Riesame nei confronti dell'ex Nar Riccardo Brugia, condannato in primo grado a 11 anni. “Adesso come si comporteranno i testi che già hanno provato a ritrattare quando gli imputati erano detenuti, sapendo che alcuni dei loro accusati sono già fuori dal carcere?”. Una domanda lecita, il cui fondamento si accerterà soltanto in Aula. di Beatrice Nencha

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