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Giambruno, perché il concetto di privacy non può essere cestinato

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 Andrea Giambruno

Corrado Ocone
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La vicenda della separazione fra Giorgia Meloni e il suo compagno è stata immediatamente strumentalizzata da non pochi esponenti di sinistra, che vi hanno scorso una contraddizione fra le idee sulla famiglia del premier e la sua vita privata. C’era da aspettarselo, conoscendo i nostri polli. Non contenti, quegli stessi esponenti politici hanno contestato poi il fatto che la Meloni abbia manifestato il desiderio di non parlare più dell’episodio, buttandosi fra l’altro a capofitto nella sua attività politica. La non partecipazione fisica alla convention/festa di ieri svoltasi al Teatro Brancaccio di Roma, ha fatto il resto.

In verità, un tale comportamento non dimostra solamente, come è stato osservato, la risolutezza e il senso dello Stato del nostro premier, mixata ad un quid di umanità, come ha lei stesso sottolineato nel videomessaggio fatto pervenire ai convegnisti. Quel comportamento porta anche all’attenzione di tutti una distinzione a cui ci siamo col tempo disabituati: quella appunto fra sfera politica e sfera privata. Non è una distinzione da poco, ma anzi è uno degli assi portanti attorno a cui si sono costruiti la modernità politica e il liberalismo classico. Ha sicuramente ragione Daniele Capezzone quando scrive, su queste colonne, che, nella nostra epoca dominata dalla comunicazione, «sarebbe lunare invocare una impossibile privacy». Che però quel concetto per un liberale non possa essere facilmente buttato nel cestino, a me pare altrettanto indubitabile. Esso va ripreso in mano e riqualificato, aggiornato ai nostri tempi. È proprio a partire da questa fondamentale distinzione, infatti, che in età moderna si è potuta rendere autonoma la politica dalla morale ufficiale e dai suoi sacerdoti (non necessariamente religiosi). Così come, d’altro canto, si è potuta delimitare una “sfera” attorno al singolo individuo tesa a proteggerlo dall’intrusione di ogni potere, in primo luogo da quello dello Stato.

 

 

 

 LE VITE DEGLI ALTRI

Un politico quindi, per un liberale, va giudicato in prima istanza per i suoi atti e le sue idee, nonché dalla capacità di saperli affermare e realizzare. Laddove il cittadino dell’antica Roma, o di Atene, era libero perché viveva di politica e per la politica, la “libertà dei modeni” si misura proprio nella capacità di depoliticizzare vaste aree della vita, prima di tutto quelle concernenti i comportamenti intimi. Chi può dire di conoscere nella loro complessità (e costitutiva imperfezione) i rapporti fra un uomo e una donna o fra i membri di una famiglia? Chi, dall’esterno, può arrogarsi il diritto, che ha solo Dio, di ergersi a giudice? D’altronde, insistere sulla centralità della famiglia, così come di tutte le istituzioni intermedie della società, ha anche questo valore di difesa della nostra specificità e individualità, di un ambito tutto nostro in cui rinchiuderci con noi stessi e coi nostri cari. Non a caso un potere che entri nelle “vite degli altri”, noi lo associamo al totalitarismo, a tutti quei regimi che non hanno fiducia nella responsabilità e libertà individuale e vogliono sorvegliarci e controllarci anche oltre l’uscio di casa.

 

 

 

Il film tedesco del 2006 che porta quel nome colpì profondamente proprio perché mostrò la violenza psicologica e fisica compiuta quotidianamente dai regimi comunisti, attraverso servizi segreti e polizia. E non molto dissimile, anzi più sofisticato (grazie anche ai nuovi strumenti elettronici), è il “capitalismo della sorveglianza” messo in atto oggi nella Cina comunista e non solo. Non è nemmeno un caso che lo slogan “il personale è politico” fu proprio del Sessantotto, che in Italia non fu minimamente temperato, come Oltreoceano, da una vena libertaria. Non invadere la “sfera privata” deve valere per tutti, compresi i politici. Quella che noi definiamo “trasparenza” è certo un valore politico, ma il termine va considerato una cattiva traduzione dell’inglese accountability, ove più che l’idea dei vetri trasparenti sulle nostre vite (che ricorda il carcere chiamato Panopticon teorizzato da Jeremy Bentham) c’è quella del rendere pubblicamente conto dei soli propri atti politici e amministrativi. Rispettare la privacy di tutti, e non confonderla con la dimensione politica delle nostre esistenze, è un valore conservatore, in un mondo in cui il progressismo vuole abolire confini e distinzioni. È anche però un valore schiettamente liberale. E di questo è opportuno essere consapevoli.

 

 

 

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