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Michelle Obama, "tutti i bianchi sono razzisti": la sua ideologia nella tesi di laurea

Andrea Morigi
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Che idea bizzarra sarebbe candidare a presidente degli Stati Uniti d’America una signora convinta che l’America sia stata «fondata sul crimine e l’odio» e che i bianchi siano «irrimediabilmente razzisti». Eppure Michelle Obama lo mise nero su bianco nella sua tesi di laurea. Era convinta che l’integrazione degli afroamericani lei in realtà li definiva «neri» potesse scalfire la loro unità di gruppo e soprattutto rischiasse di minare la loro solidarietà con i membri delle «classi inferiori» della loro stessa origine etnica. Chissà perché poi non diceva subalterne, ma proprio «inferiori».

Nella sua dissertazione al dipartimento di Sociologia dell’Università di Princeton, dal titolo Princeton-Educated Blacks and the Black Community, nel 1985, la studentessa Michelle La Vaughn Robinson, quando portava ancora il cognome da signorina, premetteva che la sua «ulteriore integrazione e/o assimilazione in una struttura culturale e sociale bianca» le avrebbe «consentito soltanto di rimanere alla periferia della società; mai di diventarne pienamente partecipe», pur temendo che quattro anni di frequentazione di un ateneo «prevalentemente bianco, dell’Ivy League» vesse potuto inculcarle «certi valori conservatori».

 

POTERE AI NERI
Esordisce così quello che può essere considerato il manifesto ideologico della ex First Lady. Molto più delle sue biografie e autobiografie, fra tutte La luce che è in noi, e Becoming. La mia storia, pubblicate e tradotte in tutto il mondo in seguito alla sua ascesa alla Casa Bianca, luogo non esattamente ai margini del potere statunitense e mondiale.

Il tutto in una sessantina di pagine, per l’esattezza 66, e una bibliografia di riferimento di appena sette titoli, parto di autori più meno tutti influenzati dal movimento del Black Power. Anche se Steve Baldwin, su The Western Journal, suggerisce, fra gli ispiratori, anche l’antisemita Louis Farrakhan, il fondatore di The Nation of Islam, i cui aderenti sono rigorosamente tutti di colore, oppure il reverendo Jeremiah Wright, il leader della Trinity United Church of Christ di Chicago, cioè la Chiesa razzista anti-bianca dove Barack Obama e la consorte convolarono a nozze. Entrambi, una volta diventati personaggi pubblici, hanno preso nettamente le dis t a n z e dall’estremismo dei loro vecchi maître à penser, come anche dal «vicino di casa», pedagogista e terrorista statunitense Bill Ayers, ex membro dei Weather Underground, che contribuì agli attentati contro la polizia di New York nel 1970, contro il Campidoglio a Washington nel 1971 e contro il Pentagono nel 1972. Disistima reciproca, visto che Ayers nel 2013 aveva dichiarato che Barack Obama dovrebbe essere processato per «crimini di guerra». Quando invece nel 2009 gli avevano conferito addirittura il Nobel per la Pace.

A Michelle, ancora nessun riconoscimento del genere. E giustamente, giudicandone gli scritti giovanili, che sostengono il separatismo nero con una dialettica preso a prestito dai teorici della lotta di classe, ma in versione razziale: «Lavorando realmente con le classi nere inferiori o al loro interno delle loro comunità come risultato della loro ideologia, un separatista può comprendere meglio la loro situazione e sentirsi più disperato sulla possibilità di una soluzione di quanto lo sia un integrazionista che ignori il proprio dovere».

 

Donald Trump, per queste quisquilie, non ha tempo e ha altro a cui pensare, al processo per diffamazione intentato dalla scrittrice Jean Carroll al Tribunale di New York, dal quale ieri è uscito e rientrato polemicamente, dopo che il giudice Lewis Kaplan ha minacciato il carcere per la sua avvocata Alina Habba. Ai Democratici che vorrebbero sostituire Joe Biden con Michelle Obama per la nomination alla Casa Bianca, certi di una vittoria sull’onda della popolarità residua dell’ex presidente Barack (che diverrebbe First Lord), invece non dev’essere apparsa come la tesi di chi progetta la costruzione di un ghetto per evitare di perdere l’identità nera. Ad altri, magari a coloro che hanno fatto riemergere il testo imbarazzante dei tempi dell’università, può essere apparsa inopportuna.

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