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Coronavirus in Italia, il grave errore strategico che stiamo pagando

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Piero Fois
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Sgombriamo il campo da equivoci. Questo non è un attacco al Governo, né tantomeno alle strutture ed operatori sanitari, della protezione civile e delle forze dell'ordine, alle quali va il plauso dell'intera Italia. Questo non è un articolo né di destra, né di sinistra, né di centro: sono un economista che tra le sue esperienze lavorative ha avuto l'onore di essere il Consulente di alcuni grandi Presidenti della Sardegna espressi da partiti e coalizioni molto diverse tra loro.

Questo articolo, invece, vuole essere un contributo alla creazione di una Italia diversa, partendo dall'analisi severa dei comportamenti posti in essere dal Governo in occasione dell'emergenza coronavirus. L'Italia è un grande Paese che si tiene a galla grazie a molti imprenditori illuminati che sono riusciti ad imporre l'immagine di un'Italia vincente nei mercati internazionali. In uno studio di circa 2 anni fa, promosso dal "Foglio" con la collaborazione della Fondazione Edison e Marco Fotis, emerge un'Italia che "funziona", cioè quella parte del nostro Paese che si è fatta carico di reggere la sfida della competizione globale, vincendola nei settori più vari, da quelli più noti, della moda e del cibo, ad altri meno conosciuti dalla massa. L'Italia, in questo studio, è prima al mondo in "210 prodotti per un valore complessivo di 51 miliardi di dollari di surplus con l'estero”.  Ma non solo: "è seconda al mondo per 344 prodotti per un controvalore di 68 miliardi e terza in 290 prodotti per un controvalore di 42 miliardi". Questa è l'Italia che “funziona”, nonostante la struttura pubblica in senso lato, quella che dovrebbe costituire l'ossatura su cui poggiare l'intero sistema economico e sociale, sia perdente, talvolta fatiscente ed assente, se non, addirittura, controproducente.

L'occasione, per dimostrarlo in tutta la sua evidenza, è quella dell'emergenza creata dal coronavirus. La prima cosa che colpisce sono gli errori di comunicazione, di tempistica, di sottovalutazione del rischio, ma soprattutto di strategia. Lasciando da parte i primi, pur importanti per i comportamenti errati che hanno generato nella popolazione e ben analizzati dai media, quello decisivo e grave, per poter limitare la diffusione del contagio, è stato l'errore strategico, sia sul metodo che ha ispirato gli interventi sia sul tipo di misure messe in campo. Dopo aver preso coscienza che il contagio si propagava di fuori della prima area, sono state annunciate misure che, via via, ampliavano il limite territoriale e le restrizioni, ispirate al principio "della proporzionalità e della adeguatezza", rimarcando più volte questo principio. Un errore madornale, niente di più sbagliato. Non si va dietro all'emergenza cercando di circoscriverla: sempre e in assoluto, di fronte ad un pericolo portato da un "agente", oltretutto sconosciuto, non si insegue il pericolo varando via via misure "proporzionali ed adeguate" a quella situazione, ma si previene con tutta la potenza possibile. Quel tipo di misure, ritenute valide dal Governo, avrebbero dovuto riguardare non solo la piccola porzione del territorio lodigiano ma, da subito, l'intero Paese con limitazioni agli spostamenti tra Regioni e conseguenti quarantene: questo in assoluto, ma a maggior ragione essendo a conoscenza di ciò che accadeva in Cina dove, pur in presenza di regole fatte rispettare militarmente, il contagio si era propagato in modo esponenziale. Ma il più grave errore strategico è nel tipo di misure adottate, che non hanno fermato, né rallentato, il propagarsi del contagio in tutto il Paese, isole comprese, e che produrranno uno sconvolgimento economico epocale. Questo è uno tsunami violentissimo. 

L'emergenza sanitaria che stiamo vivendo, in questi giorni, è il terremoto, cioè  "solo" la parte delle scosse telluriche dello tsunami, ma a seguire prenderà corpo, con tutta la sua forza distruttiva, un maremoto di proporzioni gigantesche che invaderà tutte le attività economiche e con il quale dovremo fare i conti per un periodo ben più lungo di quello dell'emergenza sanitaria. Mi sono chiesto che cosa avrei suggerito, se fossi stato ancora consulente, per bloccare il contagio ed evitare, allo stesso tempo, il tracollo dell'economia. Semplice quanto l'uovo di Colombo, si direbbe: la fornitura delle mascherine protettive, con l'ordine di indossarle, a tutti i presenti nel nostro Paese. Sarebbero state sufficienti anche quelle cosiddette chirurgiche in grado di impedire la trasmissione del virus da chiunque fosse contagiato: asintomatico, dubbio o conclamato. Questo accompagnato da misure volte a vietare unicamente le attività incompatibili con l'uso della mascherina (ristoranti, bar, ecc.). Una misura di questo tipo, fatta rispettare in modo rigoroso, avrebbe sicuramente bloccato o, quantomeno, drasticamente ridimensionato il contagio a qualsiasi livello, sventato la pressione sugli ospedali, limitato il numero dei decessi, tutelato la vita e l'efficienza del personale medico, di tutti coloro che operano nell'assistenza sanitaria e di tutti coloro che, per le funzioni svolte, si trovano costretti a gestire in prima linea l'emergenza sanitaria.

Ad eccezione di quelli interessati dai pochi provvedimenti di chiusura, tutti gli altri avrebbero continuato a lavorare e, sopratutto, i nostri prodotti, protetti in questo modo da presunte contaminazioni, non avrebbero subito quell''ostracismo e quella diffidenza a cui, invece, andranno incontro nei mercati internazionali, anche dopo la fine dell'emergenza sanitaria. L'immagine del nostro Paese, infatti, faticosamente costruita dagli operatori in anni di competizione globale, lascerà il posto ad un’Italia invasa dal Covid 19, un'Italia verso cui uno Stato dopo l'altro hanno chiuso i confini, asserragliata nelle proprie case ed i cui prodotti non saranno per un lungo tempo sinonimo di eccellenza come nel passato. E l'immagine di questa Italia, prima al mondo di gran lunga per contagiati e morti, in rapporto alla popolazione, ma che addirittura ha superato la Cina in assoluto nel numero dei decessi, rimarrà a lungo stampata nella mente dei consumatori. In questo senso, la struttura pubblica su cui poggia l'apparato produttivo del nostro Paese, come detto all'inizio, è stata addirittura controproducente, assestando un colpo da knock-out ai successi dell'imprenditoria italiana. È ovvio che una misura di questo genere presupponeva la disponibilità di maschere protettive per tutti. Si riteneva che in una Nazione degna di occupare i primi gradini della competizione globale, avesse pronto un apparato idoneo a fronteggiare, tra l'altro, rischi di natura biologica, involontari o intenzionali, sopratutto in tempi in cui il terrorismo ha dimostrato di non aver scrupoli e di non farsi impressionare da eventuali condanne per crimini di guerra.

L'Italia ripudia la guerra, recita la Costituzione (art. 11),  ma non la difesa! La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività (art. 32). Era ragionevole pensare che, in depositi strategicamente dislocati in tutte le regioni d'Italia, oltre ad armi e munizioni, fossero stati accumulati, negli anni, dispositivi di sicurezza pronti all'uso, per tutta la popolazione, per fronteggiare emergenze create da eventi di questo genere: invece, non esistevano neppure per tutti gli operatori sanitari, cioè di chi in prima linea è stato chiamato ad assicurare l'assistenza e che, infatti, ha pagato, finora, con un pesante tributo di contagiati e di vite umane. E non si parli di costi perché, oltre all'inestimabile valore della vita, il danno economico che subiremo non sarà neppure lontanamente paragonabile a quello necessario per l'acquisto delle maschere di protezione; costo che, tra l'altro , una oculata politica di approvvigionamenti avrebbe consentito di spalmare in diversi anni. Ma questo non basta a giustificare la mancata disponibilità delle maschere. Questa è, a tutti gli effetti, una guerra portata da un nemico che non è né un popolo né una Nazione, ma pur sempre un nemico dai comportamenti devastanti. Come in tutte le guerre, si adottano misure di guerra, quale quella di riconvertire immediatamente fabbriche e stabilimenti produttivi per poter produrre in tempi rapidissimi quanto necessario per combattere l'emergenza. C’èra solo, e c'è, l'imbarazzo della scelta, con tutte le fabbriche tessili ed affini (oltre 65.000) presenti nel nostro Paese. Basti pensare che la Cina in brevissimo tempo ha riconvertito addirittura una fabbrica che produceva auto per produrre mascherine di protezione con una capacità di 5 milioni di mascherine al giorno.

Purtroppo, ancora oggi ci stiamo contenendo, con gli altri Paesi che non hanno ancora il nostro livello di emergenza sanitaria, le maschere di protezione disponibili sul mercato internazionale per darle in dotazione, almeno, agli addetti ai lavori. Anche se adottate in ritardo, queste misure avrebbero bloccato, o fortemente rallentato, la diffusione del contagio ai livelli raggiunti in quel momento.  Di tutto questo nulla è stato fatto. Perché? Passata la pandemia e la paura, tutto sarà come prima, forse anche peggio, perché la crisi economica inasprirà i toni della economica, già molto alti prima dell'emergenza, le tensioni sociali aumenteranno per la perdita di posti di lavoro, e ci sarà la voglia di pensare solo a sé stessi dopo questi giorni di quaresima obbligata.  Ma una riflessione va fatta. Sviluppiamo tecnologie solo poco tempo prima impensabili, stiamo progettando di colonizzare altri mondi, abbiamo costruito armi capaci di distruggere l'intera umanità, ma basta che un pipistrello rilasci uno dei suoi virus, per annientare tutta la nostra potenza, per farci asserragliare nelle nostre case e, addirittura, temere fortemente per la nostra stessa vita. È evidente che c'è qualcosa che stride, che non va. 

di Piero Fois

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